Obesità: da amplificatore di rischio a malattia cronica

34 OBESITÀ: DA AMPLIFICATORE DI RISCHIO A MALATTIA CRONICA pro-infiammatorie, mentre aumenta, in queste condizioni, l’espressione nel tessuto adiposo di citochine anti-infiammatorie come la IL-10 [15]. Esistono quindi solide evidenze che trattare l’obesità sia decisamente utile (anzi, fondamentale) per il trattamento delle alterazioni del metabolismo del glucosio ad essa associate e di come il miglioramento di queste ultime in corso di trattamento della obesità possa essere legato proprio alla parziale correzione di quei meccanismi fisiopatologici che collegano l’obesità al diabete. A consolidare il concetto che l’obesità sia un potentissimo “driver” dello sviluppo di DM2 contribuiscono anche i dati che associano il calo ponderale ad una importante riduzione del rischio di comparsa di diabete. Nel Diabetes Prevention Study [16], ampio studio Finlandese di intervento su una popolazione ad alto rischio di sviluppare diabete, tra i soggetti sottoposti ad intervento sullo stile di vita, coloro che alla fine del follow-up avevano raggiunto un calo ponderale pari ad almeno il 5% del peso iniziale avevano un rischio di sviluppare diabete inferiore di oltre il 60% relativamente ai soggetti dello stesso gruppo che non riuscivano invece a perdere peso. In maniera del tutto simile, nel Diabetes Prevention Program [17], uno studio di intervento condotto negli USA su una popolazione ad alto rischio di sviluppare diabete, nei circa 1079 soggetti sottoposti ad un intervento sullo stile di vita con l’obiettivo di una riduzione del peso corporeo pari ad almeno il 7% del peso iniziale, il rischio di sviluppare diabete nel corso dei 4 anni di follow-up risultava del 58% inferiore rispetto ai 1082 soggetti che rappresentavano il gruppo di controllo. I dati di questi due ampi trial di intervento suggeriscono quindi un importante ruolo della riduzione ponderale nella riduzione del rischio di diabete associato alla obesità: l’analisi di questi dati insieme ad altre evidenze suggerisce inoltre che la protezione verso il rischio di sviluppare diabete è linearmente correlata con il calo ponderale, con gli individui che perdono una maggiore quantità di peso maggiormente protetti rispetto a coloro che ne perdono meno [18]. Un ulteriore punto che occorre sottolineare nell’ambito degli stretti rapporti tra obesità e diabete mellito è l’effetto sul peso corporeo esercitato dai farmaci utilizzati nella terapia del diabete mellito di tipo 2. Da un lato, infatti, esistono terapie per il diabete che non solo non favoriscono la perdita di peso, ma sono associate ad un incremento ponderale. E’ il caso della terapia insulinica [19], della terapia con sulfoniluree e della terapia con pioglitazone [20]. E’ vero che nel caso di quest’ultima molecola l’incremento ponderale si associa ad una redistribuzione in senso favorevole del tessuto adiposo, con un aumento del tessuto adiposo sottocutaneo ed una riduzione del grasso viscerale [21], ma è anche vero che, come anche nel caso dell’insulina e delle sulfoniluree, utilizzare farmaci che favoriscono un aumento del peso certo non aiuta l’aderenza al trattamento con essi di un paziente tra gli obiettivi terapeutici del quale vi sia un importante calo ponderale. Tra gli altri farmaci utilizzati nella terapia del diabete, gli inibitori della DPP-IV hanno un effetto “neutro” sul peso, non essendo associati ad un incremento ponderale né ad una documentabile perdita di peso [20]. Un discorso simile può essere fatto per la metformina: anche se in alcuni studi è stato descritto un calo ponderale statisticamente significativo (anche se di entità comunque modesta) associato al trattamento con metformina, la modesta entità dell’effetto e la discrepanza nei risultati tra i diversi studi hanno fatto sì che il farmaco non sia mai stato approvato per il trattamento della obesità [22]. Anche l’utilizzo di SGLT2 inibitori si associa ad un calo ponderale, al quale verosimilmente contribuiscono la perdita di fluidi conseguente alla diuresi osmotica (specialmente nelle prime settimane di trattamento) e, in misura maggiore, la perdita di glucosio, e quindi di substrati energetici, con le urine [23]. Il calo ponderale associato all’uso di SGLT2 inibitori, tuttavia, è anch’esso relativamente modesto nell’entità, con una perdita di peso che raramente eccede il 3-4% del peso corporeo iniziale [23]. Un discorso decisamente diverso può essere invece fatto per gli agonisti recettoriali del GLP-1. Già studi di fisiopatologia avevano dimostrato come tra le azioni del GLP-1 nativo nell’uomo vi fosse la

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