Obesità: da amplificatore di rischio a malattia cronica

61 DOCUMENTO SIPREC 2022 tore del plasminogeno [10]. Studi più recenti hanno dimostrato che anche l’accumulo di grasso ectopico cardiaco, in sede epicardica o pericardica, si associ ad amentato rischio di complicanze metaboliche e cardiovascolari, tra cui l’aterosclerosi coronarica [11,12]. Nel Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis, il grasso pericardico è emerso come predittore di eventi coronarici, con valore indipendente ed incrementale rispetto ai fattori di rischio tradizionali [13]. D’altra parte, il Rancho Bernardo Study [14] non ha confermato tale dato, riportando un aumentato rischio di mortalità per tutte le cause nei pazienti con eccesso di grasso epicardico, ma non una maggiore incidenza di eventi coronarici. Allo stato attuale, il preciso ruolo svolto dai depositi di grasso ectopico cardiaco nel processo di aterosclerosi coronarica rimane controverso ed ulteriori studi prospettici sono necessari per raggiungere solide evidenze. La definizione di “obesità metabolicamente benigna” è stata coniata per identificare un sottogruppo della popolazione obesa caratterizzato da un normale profilo metabolico, nonostante il BMI elevato (>25g/m2), fenomeno anche denominato “fat-but-fit paradigm” [15]. I fattori potenzialmente implicati in tale fenotipo (descritto nel 15% o 30% della popolazione obesa, a seconda della definizione utilizzata) sono molteplici: un basso livello di infiammazione sistemica, una preservata sensibilità insulinica, un più salutare profilo alimentare ed una migliore fitness cardiocircolatoria [15]. Alcuni studi hanno anche suggerito che i pazienti affetti da obesità metabolicamente benigna presentino una migliore prognosi cardiovascolare, sovrapponibile a quella della popolazione generale, ma dati contrastanti sono stati riportati in letteratura, anche a causa delle eterogenee definizioni utilizzate per classificare tale entità [16,17]. All’altro estremo, è stato descritto un aumentato rischio di eventi coronarici nei pazienti affetti dalla cosiddetta “obesità con normale peso corporeo” o “obesità centrale con normale peso corporeo”, in cui la percentuale di grasso corporeo o la circonferenza vita, rispettivamente, sono aumentati, nonostante il BMI nei limiti di normalità [18,19]. Nel loro complesso tali evidenze sottolineano come, ai fini di una precisa valutazione del profilo di rischio cardiovascolare, il BMI non sia un indicatore accurato, ma piuttosto sia necessaria una valutazione multifattoriale. Un ulteriore elemento meritevole di considerazione è la durata dell’esposizione all’obesità. Una prolungata esposizione all’obesità globale o viscerale è stata correlata allo sviluppo subclinico di coronaropatia e alla sua progressione, in maniera indipendente dal grado di obesità [20]. In particolare, l’excess BMI- and waist circumference -years sono stati descritti come migliori predittori del rischio cardiovascolare rispetto al BMI ella circonferenza vita [21]. Il paradosso dell’obesità Numerosi studi hanno riportato una relazione inversa tra l’obesità e il rischio di mortalità nei pazienti con malattia coronarica, sia nel contesto della malattia coronarica stabile che nei pazienti reduci da sindrome coronarica acuta o procedure di rivascolarizzazione, definito come “obesity paradox ”[16]. Tale dato tuttavia va considerato con spirito critico e con la consapevolezza di alcune rilevanti limitazioni metodologiche degli studi in questione: l’utilizzo del BMI come unico parametro di obesità (in assenza di una valutazione della distribuzione regionale del grasso corporeo), la più giovane età ed il minor tasso di comorbidità dei pazienti obesi con coronaropatia rispetto ai pazienti con coronaropatia non obesi ed il potenziale ruolo svolto da fattori confondenti non considerati, quali la fitness cardiocircolatoria e la sarcopenia [16]. Una recente metanalisi che ha incluso 89 studi ed oltre 1.3 milioni di pazienti con malattia coronarica ha inoltre evidenziato come il minor tasso di mortalità associato all’obesità fosse maggiormente evidente nel follow-up a breve termine, per poi scomparire oltre i 5 anni [22]. Inoltre, come anche già riportato dalla metanalisi condotta da Flegal e co-autori [23], il paradosso dell’obesità è sostanzialmente limitato ai sottogruppi di pazienti affetti

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